Il senso della fine by Marianna Crasto

Il senso della fine by Marianna Crasto

autore:Marianna Crasto [Crasto, Marianna]
La lingua: eng
Format: epub
editore: effequ
pubblicato: 2023-07-01T22:00:00+00:00


13

Quando sono ritornata al Magna Grecia la mattina del primo di marzo avevo il torace pesante di ghiaia e la pancia vuota dei nuovi amori senza rimedio. Il giorno era chiaro e pulito, e l’aria non produceva attrito. Camminavo liscia nel parcheggio e questa semplicità mi confondeva di uno stupore magnifico e sonnolento. Tito Stagno insinuava una mano sotto i miei capelli e mi soffiava nell’orecchio Sei bravissima, ancora un altro passo con una voce calma che accompagnava il movimento dei fianchi.

Alle quattro mi ero risvegliata sul pavimento con la guancia in una pozzanghera di saliva e mi ero asciugata con la manica del pigiama. In tv, l’aula di un tribunale americano in un vecchio telefilm di avvocati. Avevo trovato il divano e lentamente mi ci ero issata a sedere.

Mi pareva di essere abbastanza sana. Non stavo avvertendo nessuno scollamento generato dal panico o dall’ansia. Ero riemersa persino ristorata dal sonno. La situazione, in fin dei conti, non si presentava così grave: ero ferma sul mio divano e sentivo sotto i piedi la durezza familiare del mio pavimento, riconoscevo gli arredi del salotto, le mie stampe alle pareti, l’odore del cibo che avevo mangiato. Esercitare il possesso mi faceva da zavorra, mi teneva giù alla stoffa del divano. Però un capriccio mi mordeva lo stomaco, mi attorcigliavo su un minuscolo particolare: avrei voluto svegliarmi più tardi, o non essermi addormentata affatto, invece di ritrovarmi per le mani una manciata di ore invivibili e anguste. Il tempo ancora a disposizione fino a mattina si stava modellando in un’intercapedine. C’era da usarla per prendere decisioni tecniche e strutturali, sistemare i cavi, i quadri elettrici.

Da un lato dell’intercapedine: la vita che avevo vissuto e che conoscevo, la vita riuscita bene rispettando i progetti, quella riuscita male, i piani che erano falliti e mi avevano insegnato le forme più vitali di adattamento, un mucchio di giorni che erano stati soltanto un gradino per salire al giorno successivo, un mucchio di altri felici. Dall’altro lato dell’intercapedine: la domanda se credere ancora nel rapporto causa-effetto, la domanda se l’intercapedine stessa avesse spostato i livelli dell’esistenza, se quello che c’era al di là potesse combaciare con quello che c’era al di qua, se si trattasse dello stesso tabellone di gioco. Mi ci ero dedicata con impegno: il sole era sorto su un edificio completamente riprogettato. Non ero più quella che accordava i passi nel parcheggio.

Il ragazzo di DolceKasa era riuscito a raggiungermi quando avevo varcato le porte automatiche da un paio di metri. Richiamata dalla voce, mi ero girata dalla sua parte: affannato per la corsa, teneva le braccia allargate a mezz’aria e con le mani ai lati del corpo pesava il mio comportamento.

«Oh, ma che ti prende? Stai bene?» mi aveva chiesto. Tutto in lui era interrogativo: le rughe attorno agli occhi, i punti in cui la fronte si era piegata, la mandibola che lasciava intravedere una contrazione. Aveva allungato una mano verso la mia per stringermi le dita. Non era una mattina da chiedere come



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