La stanza di Natalia by Monica Gentile

La stanza di Natalia by Monica Gentile

autore:Monica Gentile [Gentile, Monica]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Giunti
pubblicato: 2024-04-08T12:36:13+00:00


14

La prima cosa che percepii attorno a me fu una gran concitazione: le voci si mischiavano e si coprivano; ero distesa e qualcuno mi reggeva le spalle, mentre mani fresche mi palpeggiavano le cosce.

«Altri tagli non ne ha, grazie a Dio.» Riconobbi la voce di nonna Antonia.

Aprii gli occhi.

«Gesù, Gesù! Che spavento c’hai fatto prendere!»

«Isabina, parla, dicci qualcosa.»

Erano tutti là: i nonni, Evelina, Ernesto e Graciano che, pochi passi indietro, si rosicchiava le unghie dal nervosismo. Cadendo mi ero fatta un piccolo taglio sulla fronte da cui perdevo sangue che cercavano di tamponarmi col fazzoletto.

«Zu… cche… ro» farfugliai.

Un Capodanno di qualche anno prima un amico di mio padre, prendendo la pistola del fratello carabiniere, aveva provato a far esplodere dei colpi dal balcone, ma aveva impugnato male l’arma e si era sparato a una mano. Si era rifiutato di andare in ospedale: avrebbe fatto passare dei guai al fratello; così, per arrestare il sangue si era fatto ricoprire la ferita di zucchero.

Mi aiutarono ad alzarmi ma mi girava tutto intorno.

«Dobbiamo portarla al pronto soccorso» disse qualcuno.

Prendemmo l’auto di Ernesto, quella dei nonni ce l’aveva Alfredo. Fu una corsa furiosa e trionfale. Giacevo sul sedile posteriore con la testa sopra il grembo di nonna, fissavo il finestrino di fronte dove era incollato l’adesivo dello scudetto della Juve.

«Brucia…» Mi sentivo confusa.

Nonna continuava a tamponare la ferita con il fazzoletto. «Lo so, lo so. Ci siamo quasi.»

«Non voglio la puntura.» Ero rimasta terrorizzata dagli aghi da quando qualche anno prima il pediatra mi aveva dato una cura di ferro per una lieve anemia.

Nonno Pacifico, seduto davanti, si voltava continuamente verso di noi. «Perde ancora sangue? È sveglia? C’hai dolore forte, Isabina? Dillo a Bipa se stai male.»

«Paci’, insomma! Così la fai agitare» sbottò nonna. Mi guardò: «Ora ti spunta un cocomero sulla fronte. Una bella melanzana viola che ci facciamo la parmigiana. Paci’, guarda nella mia borsa. Vedi se c’è un fazzoletto pulito».

«Nonna…»

«Magaredda» avvicinò l’orecchio. «Non sforzarti. Non parlare.» Prese il fazzoletto che nonno le porgeva e lo sostituì premendomelo piano sulla fronte.

Giungemmo in ospedale. Mi sentivo spossata come se ci fossi arrivata correndo. Un’infermiera ci accompagnò in una stanzetta con vetrine colme di medicinali, un macchinario che non capii a cosa servisse e un lettino con le rotelle su cui mi aiutò a distendermi. Sul muro c’era un poster che ritraeva un cervello con le diverse aree segnalate in colori differenti.

Nonno Pacifico, con gli occhi lucidi e la faccia smorta, mi dava colpetti sull’avambraccio ogni volta che chiudevo le palpebre. Il dottore, un uomo con i capelli lanosi, arrivò fischiettando su un paio di clogs; portava il camice bianco sbottonato.

«E allora, bimba bella, sono il dottor Serra. I bambini mi piacciono tanto, ma non li mangio a colazione. Me lo fai un sorriso?» si disinfettò le mani e fece qualche domanda ai nonni. Masticava un chewing gum: il suo alito profumava di menta e pensai che il nome Biancamenta gli stesse bene addosso. Finì di visitarmi e decretò che due punti di sutura sarebbero bastati.



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