Quali soldi fanno la felicità? by Annalisa Monfreda

Quali soldi fanno la felicità? by Annalisa Monfreda

autore:Annalisa Monfreda [Monfreda,Annalisa]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Feltrinelli Editore
pubblicato: 2024-02-27T00:00:00+00:00


E se fossimo noi a stabilire quanto vale per noi il lavoro?

C’è un movimento in atto, che spande profumo di rivoluzione. È troppo vicino per guardarlo dalla comoda postazione della storia, azzardando analisi e previsioni. Eppure, è così evidente che non possiamo evitare di notarlo. La storia di Valentina Aversano, che parlando di soldi con le amiche, è riuscita a liberarsi dalle maglie dello sfruttamento, intessute dal privilegio di fare “il lavoro che amava”, è una delle manifestazioni di questo movimento, che viene quotidianamente studiato, negato, enfatizzato, sminuito con il nome di “Grande dimissione” e che per anni ci siamo rifiutati di vedere in Italia, ma che Francesca Coin, nel libro Le grandi dimissioni, sostiene essere in atto fin dal 2017. “È un fenomeno, quello italiano, che, a differenza di quello americano,” racconta ai microfoni del podcast “Il lavoro non ti ama”,94 “non è un gesto politico di rifiuto del lavoro, ma un atto individuale di rifiuto di una certa condizione di lavoro, dello sfruttamento, dell’ambiente tossico, dell’essere sottopagati. È il segno del fallimento di una richiesta collettiva di diritti. È una decisione di riscatto individuale, non di matrice rivoluzionaria”.

La matrice rivoluzionaria, che magari non è nelle intenzioni di chi si dimette, è però nel pensiero sottinteso a questa scelta. Un pensiero che provoca repulsione nelle generazioni più vecchie, ma che è estremamente promettente in ottica di una ridefinizione della propria relazione con i soldi. È l’idea per cui non siamo noi a non valere abbastanza perché ci pagano poco. Ma è il lavoro a essere talmente sottopagato da non avere più valore per noi. Scegliere di non lavorare se la paga è pari a un assegno di cittadinanza sembra un’eresia per chi è cresciuto con la religione del lavoro. Non per chi è tornato a vedere il lavoro in una maniera più primordiale, come uno strumento funzionale alla sopravvivenza.

Finché il lavoro ha mantenuto la promessa di emancipazione sociale, gli abbiamo attribuito il ruolo di definirci, di darci un senso e un perché nel mondo. Siamo stati disposti ad accettarne condizioni non corrette, a lavorare più di quanto ci pagassero, a dare per scontato che fare di più fosse la norma. A un certo punto, però, quella promessa si è spezzata: pur vivendo in una società tecnologica, lavoriamo a ritmi inaccettabili e spesso per stipendi che hanno un potere d’acquisto molto più basso rispetto a quello dei nostri genitori. Il fenomeno delle grandi dimissioni è solo la punta dell’iceberg di uno più ampio e generalizzato, anch’esso microsezionato negli ultimi anni e prontamente etichettato con una formula d’effetto. Sto parlando del quiet quitting, del “dimettersi silenziosamente”, ossia l’atteggiamento di chi si limita a fare ciò per cui è stato assunto, nulla di più, nulla di meno. In termini di tempo ma anche di coinvolgimento. Un atteggiamento che è sempre esistito, una delle forme di protesta più antiche della storia dell’uomo, ma che per la prima volta viene rivendicato orgogliosamente non come protesta, ma come modo sano di arginare il lavoro, di contenerlo.



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