Chiamiamo il babbo by Paola Scola & Silvia Scola

Chiamiamo il babbo by Paola Scola & Silvia Scola

autore:Paola Scola & Silvia Scola [Scola, Paola & Scola, Silvia]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788858698570
editore: Rizzoli
pubblicato: 2019-09-16T12:00:00+00:00


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«Leva ’sta paca»

(Silvia)

Quando da piccole ci portavano a Trevico, certe estati sul finire degli anni Sessanta, una sensazione oscura mi stringeva il cuore e mi metteva una certa ansia.

Immaginavo papà, piccolo piccolo, nato lì, tra i nonni, gli zii, le zie, le nuore, sua madre e suo padre, che abitavano tutti insieme nella grande casa del Notaio Cav. Pietro Scola, in vico Scola 3.

Lo vedevo aggirarsi tra queste stanze enormi, i soffitti alti, la pietra fredda dei camini spenti (era agosto) nelle camere da letto.

Ci aveva sempre raccontato del freddo tagliente e del vento che sferzava Trevico d’inverno, della neve e dei geloni, ai piedi e alle mani. Rabbrividiva ancora raccontandocelo, e rimase freddoloso per tutta la vita. Mani e piedi ghiacciati, sempre, anche dentro guanti e calzerotti di lana.

I letti avevano zampe altissime e due o tre materassi impilati sopra, per allontanare il freddo dei pavimenti. E a volte la presenza del prete – il grosso scaldino di legno che si metteva sotto le coperte – li rendeva ancora più alti. Mi pareva tutto smisurato, a me che ero già molto più grande di lui, all’epoca in cui muoveva i primi passi in queste stesse stanze.

Il calore umano abitava solo la cucina, l’ingresso con la porta sempre aperta per eventuali visitatori e il lavatoio di servizio. Qui, infatti, c’era anche da sedersi: sedie, panchette, sgabelli, un piccolo dondolo di legno…

Dalle poche fotografie della sua infanzia, papà sembra un bambino dolce e attento, con una vena di amarezza negli occhi ma sempre pronto a ridere, e incline alla serenità.

Nonna Dina, la mamma di «Ettoruccio», ci raccontava che quando è nato papà, a Trevico, e lei lo teneva vicino a sé nel lettone, il fratellino Pietro di due anni più grande, vedendo solo quella testolina accanto a lei, le disse: «Mammà, leva ’sta paca», intendendo la «capa» – cioè la testa, parte per il tutto – di quel nuovo intruso.

O di quel cuginetto timido, con la erre moscia, che di notte svegliato dagli incubi strillava in lacrime: «Ho pauva della pecovella!». Papà rideva: «Capirei se avesse paura del “pecorone”, ma della pecorella?».

O di quell’altro nipotino, cicciottone, timido anche lui, che un giorno dopo mille cerimonie, alla fine capitolò: «Ma sì, una goccia di pizza me la voglio prendere».

Nonna Dina si piegava in due e rideva alle lacrime, piangendo rimmel e ripetendo la storiella, con la sua cadenza napoletana e una erre francese arrotatissima. In più troncava qualunque vocabolo, e anche questo ci faceva molto ridere: frutt’, formagg’, Paolètt’, Silviètt’, Peppì, Ettorù… e io mi divertivo a rifarle il verso: «Silviètt’, vuoi un boco di frrrutt’?» e lei rideva coprendosi la faccia, con quel sorriso bellissimo, sempre pronto a esplodere da un momento all’altro.

Ma piangeva anche spesso nonna Dina, inaspettatamente, il mento tremante e le lacrime in pizzo; si commuoveva, si entusiasmava, si offendeva, si crucciava per qualcuno, pregava santa Rita, invocava: «Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria!».

Ci ficcava sempre anche Sant’Anna, la mamma di Maria, chissà perché.

Ma poi ritrovava subito il buon umore e nonno la abbracciava.



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